Eleonora Diana
light designer scenografa videoartista

Data pubblicazione intervista:

25/10/2017

Eleonora Diana, light designer, scenografa, trentenne, si presenta così: “Il mio lavoro riguarda i video, l'animazione e le installazioni, nonché il design scenico e scenografico”. Progetta e costruisce scenografie in teatro, opera nel cinema e nella pubblicità in video, immagina e realizza installazioni, svolge un lavoro artistico e artigianale, ha vinto premi, ha un’autonomia creativa che talvolta va a incunearsi in progetti collettivi. Ha un sito in inglese perché per un periodo ha lavorato ad Amsterdam, ma promette di tradurlo. Ha incominciato davvero presto a essere professionalmente attiva.

http://www.eleonoradiana.com/

Il suo percorso di donna e artista. Quali elementi differenziano la professionalità di una donna da quella di un uomo?

“Se c’è differenza sta nell’istinto primordiale. Non amo generalizzare, ma la donna, se ha un progetto, ha l’istinto di prendersene cura in tutte le sue forme, come fosse un suo figlio. E’ una categoria di approccio ad ampio spettro e non solo di genere, mio padre, ad esempio [Lucio Diana, storico scenografo del teatro contemporaneo italiano, n.d.r.] è molto femminile, si prende cura con dedizione delle commissioni che riceve. Ho avuto quel tipo di insegnamento, che ti porta a vivere il mestiere in modo totalizzante”.

Qual è il suo mestiere? Provi a definirlo.

“Per vezzo direi “drammaturga dell’immagine”; l’obiettivo è creare un’immagine che abbia un senso, con il video, la luce, la scena, non necessariamente in un solo contesto: mi muovo tra cinema teatro e arte. In realtà prima ero più vicina al video, al digital storytelling”

E la famiglia, l’ha ostacolata o sostenuta?

“Ovviamente mi hanno approvato, ma spingendomi verso adeguate esperienze formative. Ho seguito dapprima studi legati al cinema, alla produzione cinematografica, poi mi è capitato di lavorare in teatro con i miei [la mamma è l’attrice ed autrice Adriana Zamboni, n.d.r.] e intanto maturava un mio linguaggio creativo, un mio gusto. Non sono un esecutore, le compagnie teatrali giovani mi cercano perché contribuisca al progetto. Sempre rispetto alla famiglia, mio fratello è musicista e fonico, abbiamo lavorato qualche volta, c’è sintonia, con le consuete scintille tra fratelli. Non è mai capitato però che lavorassimo tutti e quattro insieme”

Racconti, se si è verificato, un episodio determinante per la sua scelta professionale.

“Ricordo quando da bambina mi piaceva sbirciare dietro le quinte ed avevo simpatia per lo staff dei tecnici luci, ma il momento più importante è stato a 14 anni, quando mi hanno portato al festival internazionale Inteatro di Polverigi, dove ho scoperto delle realtà che hanno fortemente segnato la mia visione a venire, si tratta di Big Art Group di New York, che mescolava il video, la telecamera live, il teatro, il cinema e il cileno Teatro del Silencio con “Alice underground”, in cui attraverso le vicissitudini di Alice narravano la dittatura in Cile, con una compagnia di quaranta elementi, compresi i bambini. Sono esempi che mi hanno plasmato, perché la linea è sottile tra “faccio tutto io perché devo arrabattarmi” o “ho una formazione multidisciplinare perché mi servono tutti questi elementi per fare il mio lavoro”. Inoltre un altro aspetto importante è la comprensione tra le maestranze, deve esserci fiducia e compartecipazione, come mi accade con la compagnia Mulino di Amleto. Questo è un problema e un motivo per cui sono tornata al teatro, nel cinema c’è una cesura fortissima tra i reparti e talvolta ci sono dissapori e invidie, non è per me, in teatro invece i campi si contaminano”.

Polverigi è stato il suo Pigmalione?

“In un certo senso, ci sono andata tutti gli anni perché i miei genitori ci lavoravano e ho ricoperto varie mansioni, dalle prenotazioni in biglietteria al garzone trasportatore di cavi, fino a parteciparvi da artista con “Le Stanze Segrete”, un percorso sensoriale al buio in uno spazio vuoto e ampio in cui sono appese grandi illustrazioni di Daniele Catalli, da illuminare mentre gli spettatori, immersi in una traccia sonora, si muovono di fronte ad esse: una installazione e performance fatta di immagini, luci, suoni e rumori, che il festival Inteatro ha deciso di produrre e da qualche anno gira con quel [prestigioso, n.d.r.] marchio”.

Investimenti privati e finanziamenti pubblici: cosa pensa della relazione tra denaro e cultura?

“Credo molto nell’investimento pubblico, la cultura deve essere supportata ma vedo gli sprechi di risorse umane. Siamo in un periodo storico di oscurantismo, voglio credere ci sia un rinascimento; la mia generazione, quella dei trentenni, vive in un orizzonte basso, sia per tare ereditate dal passato ma anche, tanto, per pigrizia. Ho vissuto all’estero, fai meno fatica e hai più diritti, ma se hai un’esigenza culturale come puoi esprimerla fuori dalla tua storia? Dobbiamo avere disponibilità economiche pubbliche ma dobbiamo saperle usare, inoltre in sistema è distorto, un’associazione culturale non può essere equiparata a un’azienda edile ed essere subissata di richieste sbagliate. Su questo dovremmo essere arrabbiati tutti noi del comparto culturale, invece di subire e accettare insensatezze come il volontariato coatto”.

L’essere donna è stato un vantaggio, un ostacolo o un aspetto ininfluente?

“Tutte e tre, dipende dai periodi. Da piccola il problema era l’età, tra i 18 e i 23 sia l’età sia il genere, dopo il genere poteva anche essere un vantaggio; naturalmente se avessi fatto la costumista nessuno si sarebbe chiesto niente, invece il fatto di immaginare e costruire scenografie ti rende strana; mi dicono ancora “lavorare con te è come lavorare con un uomo” oppure “i tecnici donna sono più bravi degli uomini”. Ci bado poco, però c’è molto sessismo. Mia madre è stata femminista convita e militante eppure…in particolare sono le ragazze che hanno mentalità antiquate, io ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente familiare illuminato”.

Quali tematiche privilegia e a cosa sta lavorando?

“Le tematiche sono sempre le stesse, indago l’identità, non nel senso dell’ “io mistico”, cerco l’essenza del personaggio e inseguo anche la memoria personale o collettiva attraverso il cibo; so che adesso è di moda, ma l’unico momento di dubbio professionale mi è capitato dovendo decidere se fare lo chef o occuparmi d’arte, quindi ho abbinato le due cose. Forse questa idea l’ho carpita da un’esperienza avuta a 6 anni, vedendo mia madre recitare in uno spettacolo intitolato “Zie d’America” in cui si faceva assaggiare del cibo agli spettatori: a me è rimasto impresso che si mangiasse facendo “come a casa”.

Attualmente porto “Le Stanze Segrete” al festival “Segni d’infanzia” a Mantova dal 28 ottobre al 5 novembre 2017. E prossimamente andrò a New York, un po’ per vacanza, ma anche per progettare una nuova storia di cibo e memoria”.

Ha qualche consiglio da dare ad artiste della luce, emergenti?

“La solidità totale, non si deve pensare di essere fragile. Saper stare in piedi da sola, ma anche essere circondate da persone amiche, saper ascoltare i consigli e valutarli, non arrabbiarsi troppo, mettere in dubbio, guardare, leggere, ascoltare tutto quello che capita senza disdegnare il pop”.

Per approfondimenti

http://www.segnidinfanzia.org/it/festival

https://www.yumpu.com/it/document/view/59443161/programma-segni-2107

https://vimeo.com/eleonoradiana

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